Diari




Scoprirsi felici in Basilicata 





Tags: La Pina; Marshall McLuhan; Io&Annie; il Dormiglione; Solone; Statale di Milano; Luigi Tenco; Simone De Beauvoir 

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“Siete infelici!”
“Eh?”
“Voi, là, in Basilicata, siete infelici! Lo ha detto La Pinaalla radio”.
Così. BUM. Infelicità e La Pina, tutto insieme, in un colpo solo, mentre cammino a Trastevere con un amico(carissimo e romano) che a quanto pare ascolta la radio.
Mi racconta che è stato condotto uno studio sul tenore dei tweet, regione per regione, in Italia: ne è risultato che quelli inviati dalla Basilicata sono i più tristi, perché privi di emoticon sorridenti.
Fingo di esserne a conoscenza, di certo non per confortare un’immagine rampante di una me sempre-sul-pezzo, ma perché non voglio saperne di più: sono turbata, forse incavolata. Desidero mangiare una pizza surgelata e fingere per altre tre ore di essere nata nel Wisconsin.
Chiaramente poi torno a casa e googlo cose tipo “tweet depressi lucani/emoticon lucane/felicitometro/ lucani che si suicidano mentre twittano”. Scopro che sì, l’Università di Milano (cioè dico la Statale di Milano, mica la Niccolò Cusano) ha effettivamente condotto la ricerca, stabilendo i risultati di cui sopra. Incredibile.
Diciamo che in momenti come questo provo l’opposto del rammarico se penso al fatto che i ricercatori guadagnano meno dei dogsitter.
Intendiamoci: sono convinta anch’ io che quello lucano non sia un popolo scoppiettante. 
Mi chiedo, tuttavia, se la misura della felicità o di un qualsiasi sentimento si trovi nel modo in cui le persone scrivono un tweet e mi rispondo di no. Il mezzo è il messaggio? Abbastanza vero. Un cuore per Marshall McLuhan, al quale non voglio fare torti ulteriori, visto che già ne ha subiti parecchi. La sua teoria, tuttavia, è inapplicabile al social network, che, invece, pone per certi versi i medesimi problemi di afferenza significato-significante che pone la letteratura. Simone De Beauvoir, in Memorie di una ragazza perbene, scriveva della profonda disperazione dell’impronunciabile: per quanto la descrizione del colore rosso di una mela potesse essere efficace, sarebbe comunque sempre stata molto lontana dalla verità. Una mela rossa. Figuriamoci la felicità, cioè l’epitome della sfuggevolezza. Se qualcuno di questi ricercatori può spiegarmi, con tabelle e algoritmi, che la felicità è inscritta in emoticon e punteggiatura, sono qui ad ascoltare. Ma, appunto, me lo deve SPIEGARE.
A Luigi Tenco fu chiesto come mai scrivesse semprecanzoni tanto tristi. Riposta: “perché quando sono felice, esco”.
Io non sono Luigi Tenco e spesso esco da infelice, infelicitandomi ulteriormente, quindi non chioserò con una frase che adesso, nel 2013, potrebbe anche sembrare snob, pur dicendo molto sul fatto che la felicità non si dice, né si fa, ma è.
L’antropologia passa attraverso l’osservazione dei social network: non mi scandalizzo affatto, né vorrei che non fosse così.
Però una cosa è l’antropologia, un’altra sono le ricerche di mercato. La felicità non è un bene e la sua manifestazione fenomenica è qualcosa di troppo complesso per poterla desumere dal modo in cui si scrive un tweet.
Mi piacerebbe che qualcuno di questi soloni del malumore avesse un guizzo e si chiedesse se forse non si potrebbe considerare la mancanza di emoticon nei tweet lucani come indifferenza verso la comunicazione da social network, dove ciascuno veste il proprio “vorrei ma non posso” e gioca ad esserlo, con l’inevitabile affettazione che ne consegue. E se, proprio in questa indifferenza, anziché vederci disillusione e malessere, non sarebbe invece interessante rintracciare una resistenza all’uniformità, una diversità piena di una speranza differente, che arriva da modelli differenti e che vuole tutelarli.
Ma forse chiedo troppo: il guizzo, che dovrebbe essere il seme della ricerca, non sempre caratterizza i ricercatori.
Io non sono una ricercatrice, pertanto mi posso permettere pensieri scombinati e allora penso che il tweet lucano senza emoticon sia una delle tante bellissime prove di resistenza alla comunicazione forzata, che è alla base dei social network (e, per quanto mi riguarda, anche della loro godibilità).
Forse in Basilicata, la regione dell’anti-mercantilismo, le persone sono baroni rampanti, se ne fregano di sembrare felici e conoscono abbastanza le convenzioni da sapere che l’abito farà sempre il monaco, ma l’emoticon non ha mai fatto né farà mai il cuore.
Mi spingo oltre: i lucani sono più felici di quello che sembrano, solo che non lo sanno. E se non lo sanno, non possono dimostrarlo né infondere l’energia che ne deriva. C’è bisogno di un esercito di Saviano al contrario, che dimostri loro quanta felicità hanno dentro, addosso, intorno. C’è bisogno di un racconto diverso, che li svegli senza passare attraverso l’indignazione (per quella ci sono già Santoro e Travaglio).
Io non credo che siamo infelici, ma sono certa che ci hanno abituati a pensare di esserlo.

Dopotutto usciamo molto spesso. Usciamo molto ma molto più spesso di quanto facesse Luigi Tenco.  

Simonetta Sciandivasci



Radicarsi, ma senza orgoglio. 



Tags: Bill De Blasio; Grassano, New York; Roots; Guccini; Diane Keaton; Dio; Alfonso Guida; televoto; Kento; All'orizzonte

tempo di lettura: 4 minuti e mezzo


Non sono un'apolide. Le radici sono la mia bussola.Roots è il nome del mio gruppo preferito, di un disco di Guccini non particolarmente bello (ma pur sempre un disco di Guccini, quindi necessario di default) e del primo cd heavy metal che comprai nel tentativo di farmi degli amici di sesso maschile (tra il 1998 e il 2003 le regole erano queste). Ho sviluppato, negli anni, un tipo di pensiero corto in base al quale la maggior parte delle cose che faccio trovano ragione nel fatto che sono di Ferrandina, di Matera, lucana, meridionale, italiana, mediterranea, occidentale. Tipo Diane Keaton che in Manhattan, quando si scandalizzava, diceva "Scusate, è che io sono di Philadelphia e lì crediamo in Dio". A un certo punto ho smesso di credere che gli eventi, la corrispondenza tra ciò che voglio e ciò che faccio per averlo, le relazioni, andassero necessariamente compresi e spiegati: ho iniziato ad accettare, senza decifrare troppo. In questo, avere ben chiaro il posto da cui si arriva e in cui si è nati, che è sempre uno e uno soltanto (indipendentemente da quanti maledetti Erasmus facciate in giro), è di grande aiuto. Non mi attribuisco più nevrosi: penso solo che vengo da Matera e questo fa di me una persona con una serie di inibizioni, attaccamenti, obblighi, durezze, debolezze, apatie che non voglio rimuovere o sanare, perché sono il portato delle mie radici. Le MIE radici, che mi postulano e quindi, in fondo, mi rendono necessaria. "Ho molte cicatrici e ricordi infelici, ma un sole ben più forte nelle radici", canta Kento. Ecco a cosa servono, anche, le radici: a star saldi nonostante la bora, il ghibli, Mary Poppins, Katrina. E' qui che mi fermo: consapevolezza e riconoscimento, entrambi fatti privati. Non mi scattano né orgoglio, né fierezza. E' un bene? E' un male? E' un bene. Ne sono sicura e l'ho capito davvero in occasione dell'elezione del nuovo sindaco di New York che, a quanto pare, ha origini lucane (oltre che campane: un principe mezzosangue). Esattamente come per l'alluvione dello scorso mese, il fatto che Bill De Blasio avesse una nonna a Grassano non se l'è filato nessuno, ma in compenso non c'è italiano che non sia stato raggiunto dalla notizia che nelle vene del Mayor scorra sangue partenopeo. A Sant'Agata dei Goti, paesino altrimenti non troppo noto, hanno organizzato feste e festini, con falanghine, hot dog, bandiere e sobrietà varie, per arrogarsi il vanto di aver dato un sindaco alla città di Lou Reed. Ma non vi pare un po' ridicolo e patetico? Dobbiamo sentirci in difetto, rispetto ai campani, perché non abbiamo colto l'occasione per far parlare di noi? Abbiamo fatto bene, invece, a restarcene zitti. Perché è evidente che la Basilicata, oltre a dare una nonna a Bill De Blasio, non ha contribuito affatto alla sua realizzazione personale e sebbene lui abbia insistito sull’orgoglio di “essere italiano”, lo sa benissimo che se nato a Grassano o a Sant’Agata, probabilmente non sarebbe diventato nemmeno assessore alla cultura di uno o dell’altro paese. Come italiani, dovremmo interrogarci su questo, tutte le volte che ci gonfiamo il petto per quello che i nostri conterranei riescono a fare quando varcano le Alpi e, se abbiamo sale in zucca, vergognarci per esserceli fatti scappare o, semplicemente, come nel caso di Di Blasio, pensare che “ah, sua nonna era di qui? Che bella coincidenza”.
Come lucani, dovremmo essere contenti di non aver dato in escandescenza alla stregua dei napoletani.
Quella timidezza che ci ha impedito di sentirci protagonisti del municipio newyorchese, oltre a essere un segno banale di raziocinio, è un bellissimo episodio di resistenza al marketing da evento, che ormai sembra diventato più essenziale dell'aria che respiriamo. Tutto deve per forza condensarsi in un baccanale senza senso per sponsorizzare cibo, vino e campanili? Ma perché? Perché questo dimostrerebbe che abbiamo un forte senso indentitario? E' vero: non abbiamo modelli di riferimento ben strutturati e spiegati a cui poterci appellare. E' verissimo. Questo ci smarrisce, ma non è la ragione per cui non siamo campioni di autopromozione arbitraria: la vera ragione sta nel fatto che non ci siamo raccontati mai. E invece abbiamo bisogno di un enorme libro in cui ritrovarci codificati e, per questo, rasserenati. La buona notizia è che quel libro, sebbene sia ancora tutto da scrivere, abbia già una trama e dei personaggi precisi, che conosciamo tutti. I napoletani possono tenersi l'orgoglio da televoto: noi siamo più generosi, non ci arroghiamo meriti personali per dar lustro alla paesologia. Forse siamo decadenti, forse siamo un po' fricchettoni. Ma almeno non ci vendiamo la faccia per un passaggio in tv. Siamo come AlfonsoGuida, il poeta di San Mauro Forte che da qualche mese inizia ad appassionare i salotti degli intellettuali fichi: amiamo le rovine, amiamo i segni del tempo, l'accettazione e la discrezione dei ruoli di contorno. Io, sarò fessa, ma trovo tutto questo incredibilmente civile, saggio, profondo e poetico. Questo è il sole delle mie radici: fottersene dell'orgoglio.

Simonetta Sciandivasci


Nicola Bronzino, un caro amico di Basilicon Valley, ha voluto condividere con noi delle ottime riflessioni sulla stessa faccenda. Nella mia nota coerenza, riesco a essere - in parte - d’accordo con lui, nonostante sostenga quasi l’opposto di quello che sostengo io: lo trovo meraviglioso, significa che siamo davvero in una zona vergine, tutta da strutturare. Leggete.


Mi sono emozionato anch’io. Non l’altra sera, ché la vittoria era più che prevedibile, scontata addirittura, come ci avevano spiegato tutti gli inviati che seguivano le comunali di New York (che già a parlare di comunali di New York, per chi viene da una regione di neanche seicentomila abitanti, vengono i brividi). Mi ero emozionato quando era saltato fuori che Bill De Blasio, il nuovo sindaco di New York, il primo cittadino della capitale del mondo, vantava origini grassanesi. È un mio compaesano, praticamente. Il sindaco di New York. Pazzesco.
Sapete quanto sia strana questa sensazione, per una ragione che prima di Papaleo aveva raggiunto punte massime di celebrità con Franco Selvaggi e Ciccio Colonnese.
Bill dimostra anche di essere molto orgoglioso delle sue origini, tanto da dichiararlo nelle interviste, in un italiano più che apprezzabile. È uno di noi e ci tiene a farcelo sapere.
Solo che a Grassano De Blasio non lo conosceva nessuno, almeno fino al mese scorso. Grassanese per parte di nonna, emigrata oltreoceano a inizio secolo, è stato in Basilicata a visitare il paese delle sue radici qualche anno fa. Ma a Grassano nessuno lo sapeva. Non si sa a chi appartenga, come si dice da noi, questo omone di quasi due metri. Non ha parenti in loco nè persone che lo conoscano direttamente.
E in questa strana vicenda, anomala e un po’ surreale, c’è molto del rapporto non risolto dei lucani con i loro compaesani. L’emigrazione, a Grassano come ovunque in Basilicata, è spesso un destino ineludibile. Ma una regione senza un immaginario condiviso fa fatica a sviluppare un sentimento di identificazione verso i propri conterranei illustri. Non sa valorizzarli come meritano, a volte li dimentica, in alcuni casi li disconosce addirittura. Non li sente simili a sè, parte della propria famiglia. Non sente di avere a che spartire con loro.
Perchè il lucano, e il grassanese nello specifico, non fa gruppo. Il lucano viaggia in ordine sparso, non si sente parte di un progetto più grande, come un siciliano, un campano o un pugliese. Le celebrazioni lucane di questi giorni verso il figlio illustre della terra dimenticata suonano male, un po’ ingenue e raffazzonate. A maggior ragione se le si confronta con l’operazione tempestiva e un po’ furbetta di S. Agata dei Goti, l’altra metà del sangue italiano di Bill.
I sanniti si sono attrezzati per tempo, magliette pro-Bill e adesivi elettorali. Hanno chiamato la tv e si sono fatti riprendere in favore di telecamera, mentre festeggiavano nella notte dell’elezione. Per questo, il giorno dopo sui giornali nazionali ci sono finiti loro. Il lucano, caratterialmente, non è portato per questo genere di operazioni. È timido, fatica a stare sotto i riflettori, abituato com’è a vivere sempre alla periferia del mondo. Ma anche perchè non ha mai sviluppato un sentimento di promozione di un suo io collettivo. Quando prova a farlo, va contro la propria natura.
Per questo le celebrazioni dell’ultima ora suonano ingenue e un po’ tardive. Riflesso di un orgoglio patrio che non sapevamo di avere, arma disperata di marketing turistico (Bill De Blasio novello Mel Gibson), servono al massimo a ottenere cinque minuti di gloria nel TG regionale. Tanto ormai per tutti in Italia De Blasio è il sindaco di S. Agata dei Goti. La prima pagina se la sono presa loro. Grassano e la Lucania continuerà a non conoscerli nessuno.
Noi ci emozioneremo da soli per l’elezione di Bill. Come ho fatto io. In privato, senza troppa enfasi. È una sensazione a cui siamo abituati: la naturale conseguenza dell’essere cittadini di una regione che non esiste.


Nicola Bronzino






3 novembre 2013 

Morire a Ferrandina, con una certa coscienza. 

Tags: Bealtles; Priebke; Rolling Stones; Ferrandina; Basilicata; Bianca Pitzorno; ONU; Manu Chao

tempo di lettura: 3 minuti 



Insospettabili somiglianze 




 Spero di morire esattamente tra 2040 anni e spero di accorgermene. Voglio godermi il momento. Chi desidera la morte nel sonno mi fa paura come chi non ascolta i Bealtles: vive a metà e dalla parte sbagliata, quella dei Rolling Stones, che sono pur sempre stati capitanati da un cocainomane mezzo ingegnere. Alla mia morte voglio arrivarci vigile, cosciente - meglio se pure sofferente - e capire cosa fa capire la morte: se la vita ha senso o no (speriamo di no). Mi immagino di morire seduta, mentre sto parlando a una delle mie 25 nipoti – magari a quella che si chiamerà Prisca, come l’eroina di “Ascolta il mio cuore” -, nella casa di mia nonna Maria, a Ferrandina. Tra 2040 anni i funerali ferrandinesi saranno ancora come sono adesso: ne sono più che sicura. La casa aperta per due giorni; le femmine nella camera del feretro e i maschi in quella antistante; i lamenti greci delle donne della famiglia, che chiunque sia morto dicono “gioj d sor, com’agghia fa” (“gioia di una sorella, come farò adesso?”) e lo diranno anche a me, nonostante io sia figlia unica, perché morire significa tornare figli di Dio e acquisire immediatamente qualcosa come 4 mila anni di fratelli e sorelle; il corteo funebre che attraversa quasi tutto paese (tappe obbligate Sott al’ Ulm – cioè sotto gli olmi - e i Portici del Corso), scortato dalla banda, con i clarinetti in prima fila e i tromboni, solenni e dorati, in ultima; i negozi che abbassano le tapparelle e le case ai primi piani con le imposte socchiuse; gli uomini fuori dal corteo che si tolgono il cappello, anche senza sapere quanto stronzo fosse chi è morto; i panzerotti di Vincenzo che qualcuno ha portato durante i due giorni di veglia e che, quando la famiglia torna dal funerale, sono lì, ancora perfetti, ad aspettare i ragazzi (perché gli adulti non mangiano almeno fino all’indomani). Voglio tutto questo. Diciotto anni fa è morto mio nonno Nicola: non c’erano internet, Facebook, la7, Grillo, Eataly, che invece c’erano sette mesi fa, quando è morto mio zio Alberto. Eppure, i funerali sono stati identici. E sono certa che il mio, tra 2040 anni, sarà ancora così. Magari, al posto del cappello, gli uomini si toglieranno una maxi antenna, ma che importa, basta che mi rendano omaggio, non per quello che ho fatto o che sono stata, ma perché ho vissuto e semplicemente per questo ho dimostrato abbastanza tenacia da meritare un tributo.
Che bello: essere chicchessia e sapere che quando te ne andrai da questo mondo, ci sarà comunque una comunità intera che per due giorni pieni, lavorativi o festivi che siano, inaugurerà la sospensione di giudizio nei tuoi confronti, si fermerà a ricordarti e, se non ti ha mai conosciuto, almeno a immaginarti. Tutti dovrebbero avere diritto a questo, persino Priebke: dovrebbe essere sancito dall’ONU e anzi appena ho un momento faccio una telefonata al palazzo di vetro, sperando che non mi mettano Manu Chao come musichetta di attesa.
C’è una cosa che però non voglio: il discorso di commiato del politico democristiano che tiene in pugno Ferrandina con lo stesso stile di Putin. Si sa che personaggi del genere sono satanici e tra 2040 anni potrebbero essere ancora vivi e sufficientemente in forze da venire a sproloquiare durante la messa del mio funerale. Ecco: impeditelo con ogni mezzo, perché se non lo farete, io verrò a tirarvi i piedi, di notte, come il Monachicchio.
Non è il modo di far politica di questa gente che metto in questione, almeno non in questa sede. Ma se quel politico non deve mettere bocca al mio funerale, c’è una ragione molto precisa: non ha alcun rispetto dei morti, almeno non in senso ferrandinese, al massimo ce l’ha in senso bresciano: una mezz’oretta di messa e poi tutti a casa (per la cronaca: sapete che a Brescia i dodicenni fanno comunione e cresima insieme? Così, per togliersi l’impiccio. Bello, eh?).
Solo che questo politico non è bresciano: è ferrandinese, sebbene sia stato così presente sul territorio che ha amministrato per decenni, da farsi venire l’accento romano - e più precisamente l’accento di Piazza di Spagna. Infatti, quest’uomo ha mollato le spoglie mortali dei suoi genitori nella cappella di un suo amico e le ha dimenticate lì. Non aveva una cappella sua, non aveva nemmeno un loculo per far seppellire i suoi cari e quindi ha chiesto un temporaneo e gratuito subaffitto al solo uomo che lo ritiene ancora una brava persona. Per dimostrare che le sue intenzioni erano davvero sincere e che si sarebbe trattato di una cosa transitoria, ha evitato persino di mettere una lapide sulla calce che serra nel loculo la bara di sua madre e suo padre, che da anni se ne stanno lì, seppelliti come due senza famiglia, anzi come due abusivi, con il nome scritto col pennarello.
Oltre alla pena umana, c’è un dato estetico: quei loculi da terremotati sono orrendi da vedere. Lo scempio del cimitero di Ferrandina è già abbastanza insopportabile così: prima che anche i cipressi si rivoltino, conviene che chi di dovere prenda i dovuti accorgimenti.
La Silicon Valley italiana sa bene da cosa prendere le distanze e quali tradizioni deve seppellire: il culto dei morti resterà indefesso, trionfante, alla faccia di chi non ha il tempo per poterselo permettere. Ma i politicanti borbonici hanno finito il loro tempo: ne siamo sicuri. Sicurissime. Parola di femmine armate di penna e mattarello.



Simonetta Sciandivasci







20 ottobre 


Imperfezione vs sfasciatezza

La mamma imperfetta del Corriere della Sera non esiste 

Tempo di lettura: 3 minuti 

Non mangiare il ragù di domenica porta male. Lo sostiene mia madre, quindi è per forza vero.Fatevi il segno della croce, cospargetevi di aglio, andate ad aggiustare specchi rotti in giro per la città e forse depotenzierete un po’ della iella cosmica che vi siete procurati tutte le volte che, come me, avete trasgredito alla regola aurea del sugo festivo. Intendiamoci: io so cucinare il ragù (e pure bene), ma raramente ho voglia di farlo. Se stamattina non mi fossi decisa a guardare tutte le cinque puntate della seconda serie di “una mamma imperfetta”, avrei detto anche che raramente trovo il tempo per fare un ragù. E avrei mentito, magari inconsapevolmente, ma con un certo compiacimento.
Ivan Cotroneo, che ha scritto la serie in questione per il Corriere della Sera, ha mentito pure lui, altrettanto inconsapevolmente, raccontando di una mamma 40/50enne che si sente inadeguata, stressata, spossata, trascurata e incompresa perché fa la madre, è femmina, lavora, non ha una stanza tutta per sé ed è schiacciata dalla concorrenza di altre madri che, anziché mandare i propri figli a scuola con un saccottino per merenda, ce li mandano con muffin rabarbaro e cannella (fatti in casa). Una 40/50enne  bellissima, magra, tonica, con marito bellissimo (chiaramente responsabile di maschilismo e tratta delle donne perché gioca alla playstation e non accompagna i figli a scuola), una casa bellissima, un lavoro fichissimo, quattro amiche uguali a lei, con le quali si incontra per una “colazione al volo” dopo che tutte hanno accompagnato i rispettivi figli a scuola. Ora. Chi ha avuto una madre (quindi l’intero genere umano), non l’ha mia vista andare a fare colazione con le amiche tutti i giorni nemmeno in vacanza, sa che ha l’armadio pieno di tailleur tutti uguali, i capelli corti per risparmiare sulla tinta, un marito che le riderebbe in faccia se lei gli dicesse “rispetta i miei spazi” e un comodino pieno di libri che finisce senza difficoltà, pur non avendo una stanza tutta per sé. Chi ha una madre vera, sa che difficilmente una donna di 45/50anni è magra o tonica: più facilmente, quando la si vede in costume, il primo aggettivo che viene in mente è “sfasciata”.
Ivan Cotroneo forse avrebbe dovuto farsi un giro dalle nostre parti, per vedere che le mamme non sono le insopportabili nevrotiche indaffarate che racconta lui.  
Mi piacerebbe ficcare una mamma lucana al posto del televisore, in ogni famiglia di Roma o di Milano, ma è complicato.
Le mamme non metropolitane si dovrebbero far sentire, quando vengono infilate in stereotipate e patetiche sit com, anche se quegli stessi stereotipi, sotto sotto, fanno piacere, perché dicono che le donne hanno sempre ragione, che sono coraggiose, che portano avanti il mondo, che sono sottostimate, che meriterebbero mimose tutti i giorni e blablabla. Ne abbiamo tantissime, noi, di mamme non metropolitane, che davanti a una biondina slavata che si lamenta per non essere stata capace di dire a suo figlio come vengono al mondo i bambini, si farebbero soltanto una grassa risata.  A loro vorrò assomigliare: per questo smetterò di dire che non ho il tempo di fare il ragù. Dirò, se proprio sarà necessario giustificarmi, che non ho avuto voglia di farlo, perché Seneca aveva ragione: la vita è lunghissima e noi perdiamo un sacco di tempo. Evviva! 

Mi auguro che Ivan Cotroneo un giorno faccia una serie televisiva sulle madri vere, quelle con le tette flosce, le maniglie dell’amore e l’insensibilità verso i traumi infantili. A loro vorrò assomigliare.


Simonetta Sciandivasci



       13 ottobre 


Basilicon Valley – il making of

Tags: Paint; friselle; Carapelli; Rivombrosa; Porta a Porta; Silicon Valley; Bon Iver

Tempo di lettura: 3 minuti e 20 secondi

Vantaggi di non saper usare photoshop: se vuoi apparire magra nelle foto, ti devi mettere a dieta; se vuoi fotografare 131 bastoncini, devi avere 131 bastoncini. Io non so usare photoshop, non sono grafica ed ero una pippa anche con Paint, negli anni Novanta.
Quindi potete fidarvi se vi assicuro che qui ci sono 131 bastoncini: uno per ogni comune della Basilicata. Ho preso uno stuzzicadenti, l’ho spuntato, ho scritto il nome del paese sul cartoncino verde, poi l’ho ritagliato e l’ho attaccato allo stuzzicadenti. Ci ho messo tre minuti per ognuno. Ho scoperto che ci sono paesi con nomi incredibili. Corleto Perticara (sarà piena di merletti, acrobati, gente che si sganascia!). Marsicovetere (ci saranno molti orsi centenari!). Pietragalla (i pietragallesi sapranno far galleggiare i sassi!). Tramutola (saranno tutti alchimisti!). Ripacandida (cioè, meglio di Rivombrosa!). Nemoli (voglio chiamare mia figlia Nemoli!). Calvello. Missanello. Gorgoglione. Anzi (ANZI! Chissà se ha una frazione che si chiama Piuttosto).
Insomma, a parte guadagnarmi un principio di tendinite, mi sono divertita. E mi sono anche sentita una brava persona, perché ho dedicato a tutti i bastoncini – cioè a tutti i comuni - lo stesso tempo e la stessa attenzione. Ero certa che al cinquantesimo bastoncino avrei pensato “vabbè, dai, tanto nella foto non si vedranno mica tutti, basta così”. E invece no. E’ arrivato il momento di badare ai particolari. 50 + 81 fa 131, sì. Ma io preferisco ottenere 131 facendo uno più uno centotrentuno volte. Perché perdere tempo è un atto di profonda libertà e noi in Basilicata siamo ancora capaci di concedercelo. Una delle canzoni d’amore più belle che ci siano, Wastedei Phish, recita “Come, waste your time with me” . Perdere tempo è libertà, perdere tempo con qualcuno o per qualcuno, invece, è addirittura amore. Credevo che l’ amore per casa mia fosse un po’ stremato, fosse l’amore di Skinny Love di Bon Iver. E invece facendo questi 131 bastoncini mi sono accorta che è un amore hip hop, vibrante e battagliero. Come una canzone di Kento  
Mi sembrava doveroso fare qualcosa di molto accurato per una regione che nei meteo dei tg nazionali non viene citata praticamente mai (forse la assimilano al Molise), dove si vedono tutti i tg regionali tranne il suo, dove chiunque viene a buttare rifiuti tossici a caso e che non fa notizia nemmeno quando muoiono 4 persone travolte dal dissesto idrogeologico.
Avrei voluto piantare i bastoncini nel pane di Matera, ma a Roma si trova solo quello di Altamura. Certo, nessuno se ne sarebbe accorto, ma vale lo stesso discorso dei 131 bastoncini. Quindi ho usato le friselle che mia madre non dimentica mai di portarmi a Roma, quando viene a trovarmi, con il senso della misura che contraddistingue una madre meridionale, cioè nessuno.
Ci vuole pochissimo a rendere una frisella gustosa, nutriente, ricca: un po’ d’acqua, il sale, l’origano, molto olio (e noi abbiamo l’olio migliore del mondo, altro che quello toscano, che ormai è buono solo nelle sceneggiature delle fiction rai e per friggere le Croccole). L’avete assaggiata una frisella senza nulla? E’ secca, dura, friabile: sembra uscita da un romanzo di Charles Dickens.
Allora, questa foto oltre a sembrare un plastico di Porta a Porta o la copertina di un disco dei Mercury Rev, vuole sembrare ed essere un invito a innaffiare la nostra terra con il talento (l’olio), la leggerezza (l’acqua), l’attenzione (l’origano), il sudore (il sale).
E’ un invito a salvare una terra che sembra sbriciolarsi in un sacchetto di plastica e, dopo averla salvata, a farla diventare un posto dove si raccolgono, sviluppano e concretizzano le idee migliori, i sogni più avvincenti. Una Silicon Valley tutta nostra – senza laureati del Mit di Boston o nerd che inventano social network per tenere il conto di quanti chili prende ogni anno la propria compagna di banco del liceo.

Io partirei da una cosa stupenda: al cinema, dalle nostre parti, puoi ancora rimanere a vedere due spettacoli di fila: nessun nano con i pop corn e le bomboniere algida viene a buttarti fuori.

Simonetta Sciandivasci





13 ottobre 2013 

Ha piovuto molto. 

Tags: stipsi; silicone; Krumiri; canone rai; Giove Pluvio; sputi; Antonio Pascale.

Tempo di lettura: 3 min

Stamattina a Roma pioveva. Come ieri, l’altro ieri, lunedì scorso, due domeniche fa, eccetera. Sono tre notti che sogno la grandine, Geri Halliwell e Saratogailsiliconesigillante. Chissà se piove anche a Matera. O a Montescaglioso. O a Bernalda. Chissà le olive a Ferrandina, chissà le arance, le fragole. Chissà la strada che è crollata a Craco due mesi fa. Chissà le tavole Palatine, chissà il mio liceo. Chissà la littorina. Chissà se i fichi di zia Angelina avevano finito di essiccarsi. Chissà la Basentana.
Basta, chiamo mia madre.
“Mamma, piove?”.
“No, oggi no”.
“Hanno aggiustato l’acquedotto?”.
“Sì, però tuo padre comunque non si sblocca”.
“Come?”.
“Eh, aveva paura che togliessero completamente l’acqua nei giorni scorsi e allora si è inibito e non è andato più in bagno”.
“Vabbè, dagli le prugne secche”.
“No, sai, è psicologico”.
“Mamma… vabbè. Avete fatto un salto in campagna? Lì ha piovuto?”
“Non ci siamo andati, ma in quella zona non ci sono stati problemi. E’ altrove che…”.
“Eh. Senti, al tg3 non dicono nulla?”.
“Boh. Noi prendiamo il Tg3 Piemonte”.
“Cosa?!”.
“Prima invece vedevamo Tg3 Liguria”.
“E TRM?”.
“Sparito da quando abbiamo il decoder”.
Saluto mia madre in preda alla sconfidenza cosmica. Infondo, se a Casale Monferrato si vedesse il TG3 Basilicata sarebbe romantico, tuttavia non credo che accada. Non ho niente contro il Piemonte, sia chiaro: mi piacciono i Krumiri, Camillo Benso Conte di Cavour, Cristina Chiabotto, la mia amica Francesca Pellas.
Faccio un azzardo: cerco notizie sul Corriere della Sera. Non c’è nulla. Non c’era nulla nemmeno ieri, nemmeno avantieri. Non c’è stato nulla MAI dall’inizio di questo disastro, cioè da quando, lunedì 7 ottobre, ha PIOVUTO MOLTO nel Metapontino e a Ginosa. Non dirò che c’è stato un nubifragio: il nubifragio è un acronimo inventato dal TG5 per non spiegare che ha piovuto molto e i paesi sono franati e la gente è morta e le case e le strade si sono allagate perché la manutenzione, in Italia, consiste in due periti tecnici e due delegati del Ministero che si prendono un caffè guardandosi con uno sguardo che dice “io lo so che tu lo sai che io lo so che non ci sono i soldi per la manutenzione, ma adesso sul verbalino scriviamo che l’avete fatta, che è tutto apposto” (lo racconta Antonio Pascale nel suo ultimo libro, “La manutenzione degli affetti”). Dire nubifragio significa intendere che c’è stata una calamità naturale, che non è colpa di nessun altro se non della natura, matrigna, iniqua, bendata, annamariafranzoni. Io non credo nella bontà della natura (viva gli OGM!Il calcestruzzo! La motosega!), però  credo sia capace di un paio di nubifragi all’anno, non cinquanta: 48 sono di responsabilità, come dire, artificiale.
Lo scorso 7 ottobre ha piovuto molto, in Basilicata. Sono morte quattro persone. Pino Bianculli, 32 anni. Chiara Moramarco, 27 anni. Giuseppe Bari, 35 anni. Rossella Pignalosa, 30 anni. Il Corriere della Sera nazionale non ne ha parlato (ma ha pubblicato una gallery di foto – nemmeno le più sconcertanti - sulla pagina di Bari, insieme a un altro trafiletto di cronaca). Su La Repubblica c’è un articoletto di cronaca. Il Fatto Quotidiano non è un giornale, quindi non l’ho controllato.
Sono morte quattro persone. Chissà se a Casale Monferrato lo sanno.
Spero che domani esca il sole e chi deve sputarsi in faccia non abbia bisogno di accendere la luce dello specchio per farlo: sono sensibile agli sprechi di energia.

Sono morte quattro persone. Pino Bianculli. Chiara Moramarco. Giuseppe Bari. Rossella Pignalosa. Quattro è un numero gigantesco. In quattro si possono fare cose gigantesche, si possono fare i Beatles
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