Lo spirito delle scale 

Tags: Casa Pound; zie; Danny De Vito; pudore; razzismo; schicchiant; immigrati

Tempo di lettura: 4 minuti e qualcosina


da "Fievel sbarca in America", il capolavoro sulla timidezza del migrante



Ho lo spirito delle scale. Quella non rara malattia che impedisce di rispondere a tono tutte le volte che si viene offesi/vilipesi/provocati/stuzzicati/dileggiati da quell’inenarrabile inferno che sono gli altri.
Immaginiamo. Siete a cena a casa di amici che abitano al dodicesimo piano, qualcuno dei presenti vi fa una sgradevolissima battuta  - e non semplicemente “sei dimagrita” o, come dicono le mie zie, “oggi stai benissimo, SEMBRI addirittura magra!”, NO: qualcosa di molto più affilato e addirittura logico, una qualche verità che forse solo vostra madre e Dio possono permettersi di spiattellarvi in faccia. A quel punto avete due strade: rispondere a tono (davvero eroico: avete fatto bene i compiti di Rob Brezsny) oppure sorridere senza tradire alcun turbamento mentre le budella vi si sconquassano e il vostro cervello si trasforma in un megafono che vi urla nei timpani “prega, azzanna, dissangua, uccidi”. Nel caso in cui imbocchiate questa seconda strada resterete inebetiti per tutto il resto della cena e solo quando sarete fuori da quella casa, sulle scale, magari al nono piano, vi verrà in mente la risposta a tono perfetta, quella con cui avreste zittito il vostro carnefice per almeno una decina di anni, facendolo sentire in dovere di andare in analisi o in rehab o a vivere nelle fogne insieme a Danny De Vito. Ma sarete sulle scale, purtroppo. Da soli. Sconfitti. Con la vostra risposta perfetta e inutile.
Quasi tutti soffrono di spirito delle scale (tant’è che sono stati i francesi a codificare la malattia chiamandola esprit des escalièrs), ma a livelli diversi. Diciamo che essere lucani e meridionali in generale corrobora in modo molto significativo il decorso della malattia, rendendola genetica, atavica, imbattibile. E’ colpa delle nostre mamme, che ci hanno insegnato che è colpa nostra a prescindere, quindi se qualcuno ci dice qualcosa di sgradevole, restiamo muti a farci il mea culpa. E’ pure un po’ colpa dell’Unità d’Italia, che ci trattò come selvaggi da domare.
Io resto ammalata di spirito delle scale mediamente per due settimane dopo essere stata offesa/vilipesa/provocata/stuzzicata: sono un caso disperato, voglio finire in una puntata de Grey’s Anatomy (solo perché mi dicono che c’è molto sesso tra dottori, cioè l’antidoto universale).
Due settimane fa raccontavo a una mia carissima amica e a un’altra sua amica che avevo avuto alcune difficoltà a prelevare nella zona in cui ci trovavamo (cioè dietro Piazza Vittorio, a Roma, tra Casa Pound e quell’universale ufficio immigrazione a cielo aperto che è Termini), perché – spiegavo – tutti gli sportelli erano poco illuminati. “E’ che sei razzista”, mi hanno detto, intendendo che il mio timore nasceva dal fatto che in quel quartiere sono tutti immigrati e questo mi avrebbe fatta sentire automaticamente più insicura (solo a me, eh, a loro no: loro salgono sul tram che porta a Termini con l’Eskimo e le tette al vento). Razzista, io? Ma che dite, ho detto, raccontando che un cinese, mentre prelevavo, mi si era avvicinato talmente tanto che io mi ero spaventata da morire e gli avevo dovuto chiedere di allontanarsi. “E’ che sei razzista”, mi hanno ripetuto insieme: sembravano i White Stripes. Smarrimento. Cosa potevo rispondere? Io, razzista? Andiamo. Sono di Ferrandina, in Basilicata. Faccio parte di una minoranza etnica: i lucani. Per tornare a casa dai miei devo farmi sette ore di autobus con un cambio intermedio alla stazione dei pullman di Santeramo in Colle oppure prendere un treno più lento di una Topolino Amaranto, al costo di un Eurostar (ma esiste ancora, l’Eurostar?), scendere in aperta campagna e poi fami mezz’ora di macchina. Razzista, io? Sono 28 anni che, quando dico il mio cognome, devo sostenere spesso sguardi diffidenti che sembrano dire “ma questa è serbocroata? E’ una badante? Fa la escort?”. Razzista, io? Non potrei esserlo nemmeno volendo: un’ enorme opposizione ontologica me lo impedisce.
“Che poi diciamolo, Simonetta – è intervenuta l’amica della mia amica – guardandoti non è che si possa pensare che a derubarti si faccia un grande affare”. Ecco. Buio. Budella rivoltate. Megafono nel cervello. Prega, azzanna, dissangua, uccidi. Per persone dotate di tanta delicatezza, dalle nostre parti esiste un aggettivo molto calzante: “schicchiant”.

E adesso sono qui, a due settimane dall’accaduto, con una grave forma di spirito delle scale che ancora mi impedisce di trovare la frase perfetta per sistemare quella conversazione e capovolgere il risultato della partita. Penso alla Basilicata fotografata dal satellite, di notte. Guardatela. E’ praticamente al buio: più al buio dello sportello di un bancomat dietro Termini. E’ al buio perché è piena di spazi aperti e vuoti: spero non li riempiremo mai, perché spero di poter sempre tornare a casa e non sentirmi di troppo, non sentirmi scalzata. Io ho camminato per vent’anni in strade dove si sentiva l’eco, dove avrei potuto rotolare per metri prima di inciampare in un altro essere umano: è per questo che mi spavento se uno sconosciuto mi si avvicina troppo, non perché sia cinese o perché io stia prelevando da un conto bancario milionario: non sono abituata a non avere il mio spazio, a non avere il mio meraviglioso vuoto intorno. Quando hai il vuoto intorno, impari a non urlare per non rompere l’armonia. E ti viene lo spirito delle scale perché sai che è importante trattenersi, filtrare, non dire la prima cosa che ti viene in mente. Prima o poi la bile dello spirito delle scale diventerà misericordia e il pudore sarà ripagato.


Simonetta Sciandivasci 

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