Morire a Ferrandina, con una certa coscienza. 

Tags: Bealtles; Priebke; Rolling Stones; Ferrandina; Basilicata; Bianca Pitzorno; ONU; Manu Chao

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Insospettabili somiglianze 




 Spero di morire esattamente tra 2040 anni e spero di accorgermene. Voglio godermi il momento. Chi desidera la morte nel sonno mi fa paura come chi non ascolta i Bealtles: vive a metà e dalla parte sbagliata, quella dei Rolling Stones, che sono pur sempre stati capitanati da un cocainomane mezzo ingegnere. Alla mia morte voglio arrivarci vigile, cosciente - meglio se pure sofferente - e capire cosa fa capire la morte: se la vita ha senso o no (speriamo di no). Mi immagino di morire seduta, mentre sto parlando a una delle mie 25 nipoti – magari a quella che si chiamerà Prisca, come l’eroina di “Ascolta il mio cuore” -, nella casa di mia nonna Maria, a Ferrandina. Tra 2040 anni i funerali ferrandinesi saranno ancora come sono adesso: ne sono più che sicura. La casa aperta per due giorni; le femmine nella camera del feretro e i maschi in quella antistante; i lamenti greci delle donne della famiglia, che chiunque sia morto dicono “gioj d sor, com’agghia fa” (“gioia di una sorella, come farò adesso?”) e lo diranno anche a me, nonostante io sia figlia unica, perché morire significa tornare figli di Dio e acquisire immediatamente qualcosa come 4 mila anni di fratelli e sorelle; il corteo funebre che attraversa quasi tutto paese (tappe obbligate Sott al’ Ulm – cioè sotto gli olmi - e i Portici del Corso), scortato dalla banda, con i clarinetti in prima fila e i tromboni, solenni e dorati, in ultima; i negozi che abbassano le tapparelle e le case ai primi piani con le imposte socchiuse; gli uomini fuori dal corteo che si tolgono il cappello, anche senza sapere quanto stronzo fosse chi è morto; i panzerotti di Vincenzo che qualcuno ha portato durante i due giorni di veglia e che, quando la famiglia torna dal funerale, sono lì, ancora perfetti, ad aspettare i ragazzi (perché gli adulti non mangiano almeno fino all’indomani). Voglio tutto questo. Diciotto anni fa è morto mio nonno Nicola: non c’erano internet, Facebook, la7, Grillo, Eataly, che invece c’erano sette mesi fa, quando è morto mio zio Alberto. Eppure, i funerali sono stati identici. E sono certa che il mio, tra 2040 anni, sarà ancora così. Magari, al posto del cappello, gli uomini si toglieranno una maxi antenna, ma che importa, basta che mi rendano omaggio, non per quello che ho fatto o che sono stata, ma perché ho vissuto e semplicemente per questo ho dimostrato abbastanza tenacia da meritare un tributo.
Che bello: essere chicchessia e sapere che quando te ne andrai da questo mondo, ci sarà comunque una comunità intera che per due giorni pieni, lavorativi o festivi che siano, inaugurerà la sospensione di giudizio nei tuoi confronti, si fermerà a ricordarti e, se non ti ha mai conosciuto, almeno a immaginarti. Tutti dovrebbero avere diritto a questo, persino Priebke: dovrebbe essere sancito dall’ONU e anzi appena ho un momento faccio una telefonata al palazzo di vetro, sperando che non mi mettano Manu Chao come musichetta di attesa.
C’è una cosa che però non voglio: il discorso di commiato del politico democristiano che tiene in pugno Ferrandina con lo stesso stile di Putin. Si sa che personaggi del genere sono satanici e tra 2040 anni potrebbero essere ancora vivi e sufficientemente in forze da venire a sproloquiare durante la messa del mio funerale. Ecco: impeditelo con ogni mezzo, perché se non lo farete, io verrò a tirarvi i piedi, di notte, come il Monachicchio.
Non è il modo di far politica di questa gente che metto in questione, almeno non in questa sede. Ma se quel politico non deve mettere bocca al mio funerale, c’è una ragione molto precisa: non ha alcun rispetto dei morti, almeno non in senso ferrandinese, al massimo ce l’ha in senso bresciano: una mezz’oretta di messa e poi tutti a casa (per la cronaca: sapete che a Brescia i dodicenni fanno comunione e cresima insieme? Così, per togliersi l’impiccio. Bello, eh?).
Solo che questo politico non è bresciano: è ferrandinese, sebbene sia stato così presente sul territorio che ha amministrato per decenni, da farsi venire l’accento romano - e più precisamente l’accento di Piazza di Spagna. Infatti, quest’uomo ha mollato le spoglie mortali dei suoi genitori nella cappella di un suo amico e le ha dimenticate lì. Non aveva una cappella sua, non aveva nemmeno un loculo per far seppellire i suoi cari e quindi ha chiesto un temporaneo e gratuito subaffitto al solo uomo che lo ritiene ancora una brava persona. Per dimostrare che le sue intenzioni erano davvero sincere e che si sarebbe trattato di una cosa transitoria, ha evitato persino di mettere una lapide sulla calce che serra nel loculo la bara di sua madre e suo padre, che da anni se ne stanno lì, seppelliti come due senza famiglia, anzi come due abusivi, con il nome scritto col pennarello.
Oltre alla pena umana, c’è un dato estetico: quei loculi da terremotati sono orrendi da vedere. Lo scempio del cimitero di Ferrandina è già abbastanza insopportabile così: prima che anche i cipressi si rivoltino, conviene che chi di dovere prenda i dovuti accorgimenti.
La Silicon Valley italiana sa bene da cosa prendere le distanze e quali tradizioni deve seppellire: il culto dei morti resterà indefesso, trionfante, alla faccia di chi non ha il tempo per poterselo permettere. Ma i politicanti borbonici hanno finito il loro tempo: ne siamo sicuri. Sicurissime. Parola di femmine armate di penna e mattarello.



Simonetta Sciandivasci

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