Le ciabatte per l’ospedale

La ciabatta da ospedale, immortalata tra purcdduzz e cartellate 

Tags: De Foseca; Johnny Rotten; Sex Pistols; purcdduzz; CGIL; Papaleo; Ferrandina; San Michele; Lucania; Basilicata; Karen Blixen

Mia zia sta friggendo qualunque cosa. Aiutatemi.
E’ arrivata stamattina alle otto, io dormivo in piedi, avevo addosso un pigiama di pile con il colletto a forma di cuore e le ciabatte De Fonseca nuove da dieci anni, perché mia madre le conserva “in caso di ricovero improvviso” (metti che ti senti male e ti portano in ospedale e tu non hai un pigiama pulito, un paio di pantofole pulite, ma che figura ci fai, con tutto il reparto e con il primario e con la caposala? ). La mia famiglia crede che esista una clausola non scritta nella deontologia medica, in virtù della quale si dispensano dal rispetto del giuramento di Ippocrate tutti i dottori che incappino in pazienti sprovvisti di pigiama e pantofole pulite.
Non avete idea di quanto sia rock’n’roll tornare a casa e infilarmi quelle pantofole, vedere il baratro negli occhi di mia madre, sentirla dire “Noooooo, non le sporcareeee, sono quelle dell’ospedaleeee”. E’ il mio momento “Johnny Rotten per dieci minuti”. Il mio momento “sono giovane, No Future, Kombatto, Kontesto, KoKoPro, Forkoni, I Cani La Band”.
Il lucano senso del pudore surclassa qualunque cosa, soprattutto il buonsenso, ma è il segno di un popolo che si concede il lusso del tempo. Il tempo per notare i dettagli e dividere il mondo tra chi bada agli stessi e chi, invece, non lo fa, lasciandosi andare sulla via del demonio, ovvero la sciatteria. Mia madre, pur essendo una che usa WhatsApp e che manda gli adesivi nei messaggi privati su Facebook, nonostante abbia trascorso diverse sere degli anni Novanta a guardare ER con sua figlia, facendosi un’idea di come vanno le cose in un Pronto Soccorso, è convita che un medico abbia la capa fresca (avere la capa fresca, da noi, significa essere perditempo, zuzzurelloni) per notare quanto consunte siano le pantofole dei degenti dell’ospedale in cui lavora e curarli di conseguenza.
Non si tratta semplicemente di amore per l’apparenza. Ve l’ho detto spesso: dalle nostre parti, l’abito fa il monaco, forma e sostanza sono inscindibili, sono un sinolo, un abbraccio in cui si inverano status e anelito, potenza e volontà.
La forma è la culla della sostanza: per questo, le pantofole nuove sono il modo in cui – assurdamente, solipsisticamente – mia madre reca il suo grazie e il suo rispetto al dottore che prima o poi mi accoglierà, mezza morta, in ospedale. E’ folle, lo so. Però è commovente: mia madre che compra ciabatte e pigiami, li conserva nella naftalina per anni, per agevolare il lavoro di un dottore che nemmeno conosce e di cui forse nemmeno avrò mai bisogno.
Avviene lo stesso per il parrucchiere: non è mica pagato per lavarmi i capelli, lui. Debbo arrivarci con la criniera lucente, che non sia mai e quello si schifa. “Mica è pagato per schifarsi e mettere le mani nei tuoi pidocchi”. Io non ho i pidocchi, ve lo giuro.
Idem per la signora delle pulizie (va bene così? O la devo chiamare collaboratrice domestica? O dottoranda in scienze casalinghe? Sto offendendo qualche categoria? State chiamando il telefono verde della CGIL? Segnalatemi, vi prego: voglio una multa per scorrettezza politica): mia madre pulisce la casa prima che arrivi. Giuro. “Mica la pago per vedere lo schifo di questa casa”.
Io non so perché non abbiano ancora candidato la Lucania al nobel per la pace, ma sono certa che è per colpa di questo pudore - che ci ha resi favolisticamente autarchici - che non ci pagano le royalties del petrolio (e che nessuno ha ancora marchiato a fuoco un enorme culo sulla fronte di Rocco Papaleo).
Mia zia frigge, frigge, frigge. Mi chiama, dalla cucina in cui si sentono esplosioni di estrogeni. Mi dice “Erede, vieni!”.
Andiamo, eredi. Godiamoci questo Natale, sperperiamolo.
Facciamo come se avessimo il treno, come se tutto fosse nelle nostre mani, abusiamo delle risorse a nostra disposizione (compresi i boschi: viva i libri, abbasso i kindle), facciamo tutto l’amore che c’è, dichiariamoci, spertichiamoci: ad essere felici, diceva Karen Blixen, ci vuole coraggio.
Mettete da parte il pudore e fatevelo riportare dalla Befana.
Auguri, auguri, auguri!


Simonetta Sciandivasci

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