Scoprirsi felici in Basilicata
Tags: La Pina; Marshall McLuhan; Io&Annie; il Dormiglione; Solone; Statale di Milano; Luigi Tenco; Simone De Beauvoir
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“Siete infelici!”
“Eh?”
“Voi, là, in Basilicata,
siete infelici! Lo ha detto La Pina alla radio”.
Così. BUM. Infelicità e La
Pina, tutto insieme, in un colpo solo, mentre cammino a Trastevere con un amico
(carissimo e romano) che a quanto pare ascolta la radio.
Mi racconta che è stato
condotto uno studio sul tenore dei tweet, regione per regione, in Italia: ne è
risultato che quelli inviati dalla Basilicata sono i più tristi, perché privi
di emoticon sorridenti.
Fingo di esserne a
conoscenza, di certo non per confortare un’immagine rampante di una me
sempre-sul-pezzo, ma perché non voglio saperne di più: sono turbata, forse
incavolata. Desidero mangiare una pizza surgelata e fingere per altre tre ore
di essere nata nel Wisconsin.
Chiaramente poi torno a casa
e googlo cose tipo “tweet depressi lucani/emoticon lucane/felicitometro/ lucani
che si suicidano mentre twittano”. Scopro che sì, l’Università di Milano (cioè
dico la Statale di Milano, mica la Niccolò Cusano) ha effettivamente condotto
la ricerca, stabilendo i risultati di cui sopra. Incredibile.
Diciamo che in momenti come
questo provo l’opposto del rammarico se penso al fatto che i ricercatori
guadagnano meno dei dogsitter.
Intendiamoci: sono convinta
anch’ io che quello lucano non sia un popolo scoppiettante.
Mi chiedo, tuttavia, se la
misura della felicità o di un qualsiasi sentimento si trovi nel modo in cui le
persone scrivono un tweet e mi rispondo di no. Il mezzo è il messaggio? Abbastanza vero. Un cuore per Marshall
McLuhan, al quale non voglio fare torti ulteriori, visto che già ne ha subiti parecchi.
La sua teoria, tuttavia, è inapplicabile al social network, che, invece, pone
per certi versi i medesimi problemi di afferenza significato-significante che
pone la letteratura. Simone De Beauvoir, in Memorie
di una ragazza perbene, scriveva della profonda disperazione
dell’impronunciabile: per quanto la descrizione del colore rosso di una mela
potesse essere efficace, sarebbe comunque sempre stata molto lontana dalla
verità. Una mela rossa. Figuriamoci la felicità, cioè l’epitome della
sfuggevolezza. Se qualcuno di questi ricercatori può spiegarmi, con tabelle e
algoritmi, che la felicità è inscritta in emoticon e punteggiatura, sono qui ad
ascoltare. Ma, appunto, me lo deve SPIEGARE.
A Luigi Tenco fu chiesto come
mai scrivesse sempre canzoni tanto tristi. Riposta: “perché quando sono felice,
esco”.
Io non sono Luigi Tenco e
spesso esco da infelice, infelicitandomi ulteriormente, quindi non chioserò con
una frase che adesso, nel 2013, potrebbe anche sembrare snob, pur dicendo molto
sul fatto che la felicità non si dice, né si fa, ma è.
L’antropologia passa
attraverso l’osservazione dei social network: non mi scandalizzo affatto, né
vorrei che non fosse così.
Però una cosa è
l’antropologia, un’altra sono le ricerche di mercato. La felicità non è un bene
e la sua manifestazione fenomenica è qualcosa di troppo complesso per poterla
desumere dal modo in cui si scrive un tweet.
Mi piacerebbe che qualcuno di
questi soloni del malumore avesse un guizzo e si chiedesse se forse non si
potrebbe considerare la mancanza di emoticon nei tweet lucani come indifferenza
verso la comunicazione da social network, dove ciascuno veste il proprio
“vorrei ma non posso” e gioca ad esserlo, con l’inevitabile affettazione che ne
consegue. E se, proprio in questa indifferenza, anziché vederci disillusione e
malessere, non sarebbe invece interessante rintracciare una resistenza
all’uniformità, una diversità piena di una speranza differente, che arriva da
modelli differenti e che vuole tutelarli.
Ma forse chiedo troppo: il
guizzo, che dovrebbe essere il seme della ricerca, non sempre caratterizza i
ricercatori.
Io non sono una ricercatrice,
pertanto mi posso permettere pensieri scombinati e allora penso che il tweet
lucano senza emoticon sia una delle tante bellissime prove di resistenza alla
comunicazione forzata, che è alla base dei social network (e, per quanto mi
riguarda, anche della loro godibilità).
Forse in Basilicata, la
regione dell’anti-mercantilismo, le persone sono baroni rampanti, se ne fregano
di sembrare felici e conoscono abbastanza le convenzioni da sapere che l’abito
farà sempre il monaco, ma l’emoticon non ha mai fatto né farà mai il cuore.
Mi spingo oltre: i lucani
sono più felici di quello che sembrano, solo che non lo sanno. E se non lo
sanno, non possono dimostrarlo né infondere l’energia che ne deriva. C’è
bisogno di un esercito di Saviano al contrario, che dimostri loro quanta
felicità hanno dentro, addosso, intorno. C’è bisogno di un racconto diverso,
che li svegli senza passare attraverso l’indignazione (per quella ci sono già
Santoro e Travaglio).
Io non credo che siamo
infelici, ma sono certa che ci hanno abituati a pensare di esserlo.
Dopotutto usciamo molto
spesso. Usciamo molto ma molto più spesso di quanto facesse Luigi Tenco.
Simonetta Sciandivasci
;)
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